Disclaimer
Considerato che se si fa una ricerca in Google con Nome font il terzo o il quarto risultato è un sito di download illegali, questo articolo può evidentemente fornire un manuale d'istruzioni per il perfetto pirata tipografico.
Si girino eventuali appunti alla malizia di chi interpreta e don't shoot the messenger.
Font data
Che cos'è un font, Orazio?
È l'apoteosi dell'umanesimo tecnologico.
Ma qui ne affronteremo il lato tecnico.
Un font, come è dichiarato in qualunque licenza, è un software.
Se andate su questa pagina potete fare una radiografia a un file .ttf e leggerne i contenuti. Sostanzialmente anche oggi in epoca di font imbriachi variabili la tecnologia di base è quella delle specifiche TrueType (sviluppata da Apple e poi ampliata da Microsoft e Adobe). Un font è un file binario contenente un numero di tabelle, grosso modo delle informazioni classificate, più o meno articolate (qui un elenco). Molto più di una forma vettoriale, quindi. Comprende delle legature, delle alternative stilistiche, contiene istruzioni sul kerning, informazioni sul copyright, sull'autore, sul venditore. Possiamo comprare lo stesso font da FontFont.com o da MyFonts.com, il file riporterà il vendor o comunque la provenienza (ad esempio che è in bundle con l'OS).
Quando si sceglie di scrivere in Georgia in Text Edit non si sta usando una libreria (Georgia.ttf) o una risorsa, ma si sta attivando un software (piccolo) che da istruzioni a un altro software (più grande, Text Edit, o InDesign) su come rendere o visualizzare il testo. Il passaggio che porta dalle informazioni contenute nel font alla sua resa grafica (su monitor o su carta) si articola a un livello che è matematica pura (lo vediamo ancora Griffo, da qui?). Per farsene un'idea – della complessità quanto meno – si può dare un'occhiata al manuale di riferimento su TrueType presente sulla sezione Developer di Apple.com.
In qualunque licenza di font (quelli che ce l'hanno) è dichiarato che i termini d'uso del software non consentono mai che il file scaricato venga in alcun modo modificato. Non alterato graficamente, proprio modificato nel suo codice interno (cioè in quelle informazioni, in quei dati, contenuti in quelle tabelle) e nelle sua struttura diciamo vettoriale.
Un font è vettori e metadata.
Struttura e metadata di un font
Esistono vari attrezzi per poter "scassinare" a vario scopo (di qui la necessità del disclaimer in apertura) struttura e metadata di un font. Se esistono, vuol dire che servono.
Sono tuttavia operazioni che violano qualunque licenza, anche del font più stronzo.
Ultimamente ho scaricato una coppia di medium gratuiti da questo bel font Margem e la licenza che li accompagnava dice così:
Tradotto significa che l'uso del font si limita ai software di grafica applicata. Ovvero quelli che il font lo usano e, anche, lo manipolano. Non si può usarlo in un sw che manipola il font per ricavarsi un altro font! Vi-e-ta-to. Giustissimo. Nella pratica sporca quella g di Margem è una riedizione di mille altre g già viste e venute prima. Detengono un copyright per questo? Detengono un copyright generico, quella g non è brevettabile. Niente in tipografia è brevettabile. Non credo esista un designer che non apra un font in FontLab per esaminarlo, modificarlo, alterarlo e ricavarne almeno uno starter per qualcosa di nuovo. Se è molto nuovo, bene. Ma spesso non si tratta di risultati molto nuovi rispetto all'originale da cui traggono ispirazione. Esistono trilioni di sans, sono tutti figli l'uno dell'altro. Inter UI è dichiaratamente un mezzo plagio di Roboto, che ha una licenza che lo consente. Ma la vexata quaestio Arial® vs Helvetica® resta insoluta (breve riassunto su Fonts.com). E che dire di Helvetica vs Akzidenz Grotesk? E di Lynotype che accusa Microsoft (Microsoft!) di avergli rubato Frutiger per ricaverne Segoe UI? E Palatino per farne Book Antiqua. Tedeschi temperaca**o :)) O, o, o, si potrebbe continuare all'infinito. Nell'open source c'è Hack che copia DejaVu che è un figlio di Bitstream Vera Sans, ma Hack mi piace e lo uso, DejaVu no!
Insomma quel che nei font commerciali è vietato e in quelli open è incoraggiato si pratica ed è il sale stesso della creazione tipografica. Ma qualcuno sempre dirà male di Hack per via di DejaVu. Qualcuno che non ama la tipografia. Qualcuno che non prova piacere dall'esistenza di tante interpretazioni diverse del DIN. A differenza di Linotype GmbH, il Deutsches Institut für Normung (...DIN!) non s'è mai lamentato.
Quel font da cui dici "giù le mani" non nasce mai da zero.
Spiekermann ha partorito cinquantamila font, ma sono tutti uguali.
Un po' come gli scarponi Timberland che generano gli scarponi Lumberjack. Stanno là, non ne è vietata la vendita. Magari i primi sono più belli, ma restano due modelli identici.
La proprietà intellettuale è sacrosanta e tutelata (faticosamente, se non sei Linotype) per legge. Bisognerebbe dare un po' di tutela anche all'onestà intellettuale. Nessun designer scrive nella propria licenza o nei propri meta quale debito ha nei confronti di quale font preesistente. Tranne i signori come Adrian Frutiger:
Meccanica dei font su macOS
Il discorso sui metadati di un font è completamente diverso. Diciamo puramente meccanico.
Non strutturale come i glifi, le proporzioni, le ampiezze, come nel discorso di sopra.
Innanzitutto, cosa sono i meta di un font. Sono dati supplementari, appunto, che forniscono informazioni sul font, non sulla sua struttura (come possono essere le istruzioni sul kerning). I metadata dicono se il font è un bold o un light, se appartiene a una famiglia più vasta o se è forever alone, dicono chi l'ha fatto e ne detiene il copyright, chi lo vende e ne detiene parte dei ricavi, ecc. ecc.
Sono cruciali per la corretta gestione dei file in un font manager. E la necessità di editarli occorre proprio quando, per motivi più o meno validi, questi metadati vadano messi a posto. In generale, come è ovvio, un buon font è perfetto e non necessita di riparazioni. La licenza di un font presume o pretende, del resto, che il file fornito sia aureamente perfetto. Non sempre lo è. I metadata possono per vari motivi essere in disordine (corrotti, alterati) e rompere un font. Anche se sono in perfetto ordine, c'è chi (su Typophile esistono varie discussioni in merito) aggiunge o modifica metadata a un font per poter creare un match e farlo finire in un set automatico.
È lecito? In linea di massima no. Lo stabilisce comunque la licenza d'uso del singolo font, non c'è una regola generale se non quella dell'open source che consente e del commerciale che vieta. Su font di libero utilizzo come Google Fonts è già più difficile distinguere senza leggersi i termi dell'EULA, ci sono almeno due attori in ballo (la foundry, il distributore esclusivo, e poi l'utente).
Tuttavia, se si prende l'Archivo Black di Google Font (creato da Omnibus Type), lo si edita, lo si raggruppa in Archivo e lo si usa senza ridistribuirlo, non credo sia di nocumento ad alcuno.
Io credo anzi che in generale il management dei font sia una cosa che riguardi in ultima istanza esclusivamente l'utilizzatore finale™. E che se uno vuole raggrupparsi quella decina scarsa di Google Fonts decorativi usabili in un'unica famiglia e vuole chiamarla Peppina, può farlo. Basta che Peppina resti sul quel solo Mac/PC.
Quali problemi si manifestano, in concreto, con i metadati di un font?
Prendiamo per riferimento FontExplorer, che è quello più schizzinoso tra i font manager (o quello più corretto), che se si trova un Helvetica composto di 4 font con metadati scombinati (va a sapere perché) che non riportano lo stesso nome "famiglia" per tutt'e quattro i file, li visualizzerà spezzati e non raggruppati sotto un solo nome. Avremo Helvetica Regular, Helvetica Bold, Helvetica Light etc.
Terribile!
Una cosa che non si può vedere!
Un disordine, un casino.
Altri software, come Fontbook (manca all'esame Fusion), fanno il lavoro sporco al posto del compilatore che ha pasticciato quei font (che potrebbe essere l'autore stesso) e basandosi sui dati comuni di quei 4 file di cui sopra si ricavano da soli che sono componenti di una stessa famiglia e li raggruppano. Se si usa FEX si è invece costretti ad essere puliti e rigorosi pena una libreria ingestibile.
Gli scenari in cui si incappa in font con metadati mal compilati o alterati sono sostanzialmente tre:
- il font è una schifezza, legale e magari gratuita
- il font è stato convertito (era vecchio, era per PC), semi-illegale come cosa
- il font è stato assemblato maldestramente, ovvero è illegale
Nel caso 1. rientrano di frequente font gratuti ma anche quelli economy class di CreativeMarket, e Google Fonts. L'Archivo (Google Fonts) sopra menzionato ha un Archivo Black a se stante: nessun meta dato è stato alterato, né è mancante, né s'è corrotto nei mille passaggi possibili fino al software finale che lo ospiterà su Mac o PC. No, quel font espulso dalla famiglia è stato lasciato così di proposito (metricamente forse è un po' diverso) o per sciatteria.
Il caso 2. è molto comune negli studi grafici più disordinati (o vecchi) in cui si hanno licenze su font Mac e li si è convertiti a PC , o viceversa, incasinandoli, all'epoca che questo era ancora necessario. Ti togli un PC, passi a un Mac, ti tieni i font. Un po' shady. L'Helvetica disordinato di sopra, per esempio, potrebbe essersi corrotto in fase di conversione perché chi ci ha messo mano non ha saputo, o il sw che ha usato non ha potuto, mantenere i metadata in ordine.
Il caso 3. è pirateria. Di quella zozza fatta di font racimolati qua e là, spesso rippati da web. Una Lumpenpiraterie, ce ne sono anche di più classy. Non si svela nessun arcano dicendo che buona parte dei font pirata che circolano sono originali fuoriusciti dalla legalità e quindi tecnicamente in perfetto ordine, puliti. Una libreria disordinata è comunque un indizio assai compromettente.
Su macOS esistono un'abbondanza di applicazioni che consentono di aprire e correggere un font. Le più comuni: RoboFont, TransType e FontExchange. FontLab fa quasi tutto in un unico software, ma non è affatto friendly. Ognuna opera in un modo, e anche strutturalmente sono molto diverse. Il più potente e complesso dei tre, RoboFont, può essere scriptato in Python.
Quale usare?
Generalmente RoboFont produce buoni risultati, ma sviscera il file e lo ricompila, diciamo così, lettera per lettera impiegandoci moltissimo (o troppissimo) tempo. Per un font va bene, per 3 o 4 va bene solo se si ha pazienza o tutti gli altri hanno fallito. Altrimenti, va automatizzato con Python. Un font aperto in RoboFont è ispezionabile in ogni singolo elemento. Mettiamo che manca il simbolo € a una vecchia famiglia di font risalenti all'epoca della Lira. Lo si può inserire da un font simile. È lecito? No. È pure esteticamente questionabile, quasi sempre. Ma non sempre.
Quello che per lo più va bene e non richiede un pomeriggio libero per fixare un font è TransType, della stessa casa di FontLab. È più immediato e consente di correggere i metadati mancanti o errati (il caso più comune è che in luogo del Family Name sia riportato quello dello stile e che nella mappa degli stili manchi poi l'indicazione di bold, regular etc.).
FontExchange è una ruota di scorta. Nasce per esportare un font da un formato all'altro. Cosa che oggi non serve essendo i font moderni intercompatibili tra OS diversi. Anche se un .ttf portato a .otf dimagrisce di qualche bite. Serve più che altro per esportare in webfont. Anche qui siamo in strettoie legali perché un font concesso in uso web generalmente esige che sia usato, se usato self-hosted, solo nel pacchetto (assortito tra .eot, .woff, .ttf e .svg) fornito dal venditore. In un mondo più semplice varrebbe la regola: dammi la licenza e fammi ritagliare il font su misura delle mie esigenze. Un inglese risparmia un bel po' di banda estirpando i caratteri Latin Extended dal suo webfont. Io credo che in molti lo facciano. Molti fornitori (o proprio autori) del resto sono disponibili a fare licenze ad hoc. Ma resta sempre tecnicamente un dolore in cu.., come dicono gli anglofoni. I font sul web li ha azzeccati, come implementazione, solo Google.
L'utilità desktop di FontExchange è quando, per imprescrutabili motivi, esportare un font da TransType non genera una famiglia ma tot font a se stanti. Magari abbiamo corretto gli stili, ma il Family Name continua a sfuggire. In quel caso, molte volte, esportare il risultato di TransType da FontExchage, magari back to .ttf, evita di farti buttare un quarto d'ora di lavoro da amanuense. Se poi si vuole indagare e capire perché TransType ha fallito, un'ispezione in RoboFont può rivelare l'arcano.
Tutto necessariamente noioso.
Una lettura più intrigante può essere questo mio vecchio articolo su che font usano in Einaudi. È il risvolto umanistico di questa facciata atrocemente tecnica qui affrontata.